Estratto dalla Prefazione
L'anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino tra Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un «Processo di Giordano Bruno».
La sorpresa è stata piacevole; l'occasione inaspettata. L'antitesi tirannia-libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messaggio filtrato dai documenti autentici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un contesto che aveva l'impressionante, inconfondibile sapore della verità.
Abbiamo voluto conoscerle l'autore, Mario Moretti.
Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivissuto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all'attendibile.
Ho avuto l'impressione che il Moretti stia esplorando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità.
La lettura de «La rivoluzione di fra Tommaso Campanella» me lo ha confermato. Anche qui l'aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bianca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la verità non è mai dolce.
La straordinaria esperienza di Campanella ha la vivacità, la corposità, la tropicalità della vita. Moretti espone i «suoi» documenti come foglie di tabacco: li allarga, li mette ad essiccare al sole, poi li «trincia» nella forma teatrale. Il risultato è immediato: Campanella ci appartiene: appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza.