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In venti brevi capitoli, che affrontano altrettanti fondamentali temi religiosi – quali: cosmo e storia, carne e spirito, libertà e grazia, male e dolore, sacro e profano –, Sergio Quinzio ha voluto ripercorrere «il linguaggio della fede cristiana: lo spazio dimenticato in cui originariamente si muoveva». Quello spazio è il luogo di una «fede sepolta». Ma non si tratta qui soltanto di rivendicare il senso originario, biblico ancor prima che evangelico, di certe categorie, di ricondurle alla loro terribile intensità e concretezza, contro la fatale asetticità dei teologi. Si tratta al tempo stesso di mostrare come la storia dello stravolgimento e svuotamento di quelle categorie riveli in ogni sua tappa lo spasimo di sofferenza che è «nato e si è sviluppato sul vuoto lasciato dalla grande speranza di un regno perfetto», il Regno annunciato da Gesù. Perché, paradossalmente (ed è uno dei tanti paradossi laceranti che accompagnano la cristianità), «il mondo moderno, e solo il mondo moderno, appartiene totalmente, fin nei suoi intimi presupposti, all’orizzonte cristiano: ne è infatti il compiuto stravolgimento anticristico». Come già si può intendere da tali accenni, con questo libro, ancora una volta, e quasi in una vibrante riflessione che veniva a concludere il suo poderoso, solitario Commento alla Bibbia e può valere da introduzione a tutto il suo pensiero, Quinzio si opponeva in modo drastico alle versioni più correnti e diffuse della fede cristiana: versioni spesso edulcorate, concilianti, smussate di tutte le impervie contraddizioni che in essa vivono.