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Si fa un sogno o si ha un sogno? Nessun dubbio per Jung: la demiurgia del fare è del tutto sviante, dal momento che è il sogno a darsi invece al sognatore. «Il sogno ci è sognato. L'oggetto siamo noi». E quando ad avere un sogno è un bambino, l'enigma di questo accadimento mosso da una finalità inconscia sfida ancor di più chi lo deve decifrare. Compito in cui la psicologia analitica dispiega una sottigliezza degna del Talmud, mettendone a frutto la massima che identifica il sogno con la sua interpretazione. Vertiginoso negli scandagli mitologici e sapienziali, storico-religiosi, alchemici e letterari, il lavoro di Jung e dei suoi allievi durante il seminario degli anni 1936-41 scompone come in un gioco di pazienza un materiale onirico in genere riferito in età adulta, dopo essere rimasto impresso per decenni. Ogni minimo dettaglio, ogni sequenza, ogni figura simbolica comincia ad assumere significanza grazie alla forza radiale di un'immagine archetipica, che amplifica e potenzia laddove - sentenzia Jung - il riduttivista Freud «porterebbe alla ribalta solo qualche piccola miseria». Il metodo etno-psicologico si esercita elettivamente proprio sui sogni infantili, che conservano ancora vivide le tracce del mondo arcaico, espressione dell'inconscio collettivo. Ma animali ctoni dagli occhi luminosi o dal corpo trasparente, creature elfiche o equoree, maschere mortuarie dei geni tori, antri paurosi o case di vetro lasciano affiorare qualcos'altro, oltre agli archetipi. Prefigurano, in sogni di sconvolgente visionarietà, un destino che si compirà. Perché «non esiste uno sviluppo della personalità»; essa è sempre «presente in potenza», ancorché «irriconoscibile».
Con questo primo volume su I sogni dei bambini prosegue la grande impresa editoriale della pubblicazione dei Seminari di Jung, iniziata nel 2003.