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Nella Shiraz del Trecento, in una corte dove si alternano principi gaudenti e principi bacchettoni, emerge il genio di Hâfez (1319-1390), il più grande lirico persiano da qualcuno paragonato a Petrarca, ammirato da Goethe e da Emerson che lo conobbero in traduzione. Lo "stilnovo" hafeziano canta le grazie di un bellissimo e innominato amico, in cui, a seconda delle prospettive ermeneutiche adottate, è dato vedere vuoi un amore proibito, vuoi un simbolo dell’Amico divino, vuoi una controfigura del principe lodato. Poeta mistico o poeta epicureo? Le sue immagini ci appaiono comunque traslucide di realtà soprannaturali: il vino può rimandare a mistiche ebbrezze, il bel coppiere può ricordare il Dio del Corano (LXXVI, 21) che versa il vino ai beati; e la condotta trasgressiva, il peccato ostentato in barba alla legge e ai dottori, può magari sottilmente rinviare a una ricerca di santità. Ma sopra ogni cosa colpisce il frammentarismo strutturale e irriducibile di questa poesia, densa e tersissima, soffusa di quella grazia squisita e ineffabile che è nelle tante miracolose "sospensioni nel vuoto" che si producono nel passaggio da un verso all’altro, là dove l’Autore sa spesso introdurre magistrali sorprese, novità repentine di tono, cambi imprevisti di giro d’immagini, alternanze inattese di pensieri, arguzie, argomenti, ironie.
Nota alla presente traduzione
Finzione amorosa e finzione religiosa nel Canzoniere di Hâfez: la lingua dell'invisibile
Bibliografia orientativa
I Ghazal
Altri componimenti:
Panegirici Quartine Frammenti