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A metà degli Anni Dieci a Roma il giovane Evola tenta l'esperienza artistica come apprendista di Balla, attratto dalle novità avanguardiste, dalle possibilità inesplorate dell'astrattismo e dalle dottrine antiche, commiste a forme spurie ed eterogenee tese ad un sincretismo spesso di dubbia natura, che in tale linguaggio "nuovissimo" convergono come vero e proprio sale/ossatura.
Ma mentre le attività fervono, la guerra imperversa e la carica vitalistica e fondamentalmente ottimista del Futurismo si scontra con l'idealismo e lo scetticismo evoliani: alla ricostruzione dell'universo attraverso la gioiosa manipolazione dalla materia si oppone il distacco della stessa attraverso la sofferenza/nigredo che di certo redime ma non rasserena.
Il dolore si fa utopia e Evola, novello homo faber, usa quale suo strumento e fine l'Alchimia disseminandone simboli e chiavi in tutto il suo operato. In questa utopia sboccia l'attrazione per Dada. Evola ne diventa l'alfiere italiano, intrattiene una fitta corrispondenza con Tzara ed organizza il "Jazz-band Dada ball".
È il 1921: insieme all'entusiasmo si insinuava la critica, la sensazione e, poi, la certezza dell'insufficienza dell'arte che laddove afferma, nello stesso tempo avverte la transitorietà della propria affermazione in un continuo processo di superamento, in un aneli· to di purezza attraverso il quale essa giunge a perfezione nell'attimo stesso in cui cessa di essere riconoscendosi come "altro". Cala il sipario e l'Evola artista, con estrema coerenza, si ritrae definitivamente dietro le quinte in quella morte dell'arte che coincide con la morte di un proprio insufficiente sé.
Elisabetta Valento è nata a Roma nel 1962. Ha curato le raccolte Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara (1919 - 1923), 1991, e Scritti sull'arte d'avanguardia (1917 - 1931), 1994, edite entrambe dalla Fondazione Julius Evola di Roma.