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Anche se gli indici romani dei libri proibiti del Cinquecento registrano un numero esiguo di autori e di opere letterarie, gli interventi sulla letteratura di svago furono molto ampi. Dalla novellistica al romanzo cavalleresco, al poema biblico, alla satira: i censori individuavano ovunque segni di anticlericalismo, lascivia e oscenità, o commistione fra sacro e profano, fra pagano e cristiano. Il libro ricostruisce i meccanismi che portarono alla distruzione di un vastissimo patrimonio culturale, alla manipolazione di opere mediante l’espurgazione, a profonde trasformazioni di generi letterari, come pure alla prassi dell’autocensura. Se lo scopo dell’azione repressiva era la moralizzazione dei fedeli, non vi è dubbio che, unita alla rimozione della Sacra Scrittura e dei libri di contenuto biblico in volgare, alla liturgia e alla recita delle preghiere in latino, essa consentì alla Chiesa di esercitare più facilmente il suo potere sulle menti e sulle coscienze, riducendo i fedeli a «minorenni perpetui».