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Dopo avere affermato che lo Stato, per conservare l’equilibrio tra i suoi poteri, deve poter contare su di un uomo che sia nutrito da desiderio di gloria, primeggi per dottrina e valore, anteponga il bene comune ai vantaggi personali e sia esempio di probità, Scipione l’Emiliano sostiene che a coloro i quali hanno bene meritato dello Stato sono riservate in cielo una vita immortale e una felicità eterna. A illustrazione di ciò, Scipione riferisce ciò che in un sogno gli è stato rivelato dal suo avo, Scipione l’Africano.
Il resoconto di questo sogno, in cui l’azione politica riceve la sua più alta celebrazione, è quasi tutto quello che ci resta del libro VI del De re publica.
Se il titolo del trattato ciceroniano riecheggia quello della Politeia platonica, nella parte di esso che ci è stata trasmessa col nome di Somnium Scipionis sono evidenti gli elementi di derivazione platonica e pitagorica: il valore attribuito ai sogni, la concezione del corpo come carcere dell’anima, la dottrina dell’armonia delle sfere celesti e dei loro influssi, l’aritmosofia, la concezione della Via Lattea quale sede delle anime beate.
D’altronde, quelle che nel De re publica vengono indicate come le caratteristiche fondamentali dello Stato romano – ossia la concordia degli ordini sociali e l’equilibrio istituzionale tra i princìpi di auctoritas, potestas e libertas – costituiscono la traduzione dei principi pitagorici nell’ambito di una comunità politica ispirata agli ideali di jus e di justitia.