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L’espansione del cristianesimo nell'Impero romano, tra II e VI secolo, è stata accompagnata da un processo multiforme di selezione, interpretazione e appropriazione del patrimonio culturale greco-latino da parte di coloro che si erano convertiti alla nuova religione o erano nati in essa. Tale processo ha provocato la reazione, spesso diffidente o ostile, delle persone comuni, delle autorità e degli intellettuali. Il libro si occupa delle ragioni per le quali, nel corso dell’età imperiale, un buon numero di filosofi di tradizione platonica ha preso posizione contro i cristiani e composto anche scritti destinati a confutarne la dottrina. Contro la pretesa dei cristiani di essere anch'essi filosofi, anzi, gli unici, i platonici loro avversari obiettavano che il cristianesimo è per sua natura una dottrina non filosofica, sia perché fondato sulla fede (quindi irrazionale), sia perché i suoi contenuti sono contraddittori e, in ciò che hanno di vero, non fanno che copiare insegnamenti provenienti da tradizioni più antiche e autorevoli, mentre, in ciò che hanno di originale, sono del tutto falsi e insensati.