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Seguendo la moda dell’ “epistolica quaestio”, nel 1634 il medico Jan van Beverwyck propone a dotti ed eruditi della sua cerchia di amicizie un tema da discutere. Ne pubblica le risposte in due volumi – John. Beverovicii Epistolica quaestio de vitae termino, fatali, an mobili? –, uscito il primo nel 1636 e il secondo nel 1639.
Quest’ultimo è costituito per la maggior parte dalla Quaestio iatrophilologica de fato et fatali vitae termino di Gabriel Naudè, qui riprodotta in stampa anastatica.
L’argomento trattato riprende lo stesso presentato nel 1631 da papa Urbano VIII, sulla scia dell’episodio del processo contro Orazio Morandi, l’abate di Santa Prassede a Roma, il quale aveva diffuso delle previsioni astrologiche, tra le quali anche quella dell’imminente morte del pontefice (allora Sisto V). Contro l’abate erano state pronunciate precise prescrizioni, fonte di riflessione anche per van Beverwyck, che ai suoi amici propone di discutere se il termine della vita umana sia “fatalis an mobilis”.
Naudè, nella sua risposta, afferma di non credere in alcun modo che il destino umano sia predeterminato, e che ha sempre combattuto personaggi quali gli indovini e i sacerdoti che hanno sfruttato per i loro fini la credulità e la paura della morte degli uomini.
La sua è, tuttavia, una posizione di mediazione tra la fede cieca nel potere divinatorio dell’astrologia e il fanatismo antiastrologico.
Lo scopo della sua dissertazione non è, però, solo quella di confutare, ma anche e soprattutto quella di voler comprendere.
Ed è per tale motivo che le sue riflessioni prendono il via da un lungo ed accurato excursus storico-critico intorno al tema del fato, dalle credenze superstiziose dei popoli dell’antichità, fino all’età contemporanea.