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Il Picatrix è unanimemente considerato uno dei testi più celebri, più diffusi e allo stesso tempo più misteriosi della tradizione esoterica. Attribuito allo pseudo al-Magriti, ma di probabile origine ermetica greco-egizia, fu tradotto dall’arabo in latino in Spagna fra il 1047 e il 1051, ed ebbe un ruolo preminente nella formazione, nella cultura nelle ricerche dei maggiori filosofi ermetici del periodo umanistico-rinascimentale, da Marsino Ficino a Pico della Mirandola, da Leonardo a Campanella, da Cornelio Agrippa a Giordano Bruno. Condannato come scritto eretico, come tutti maggiori testi di Magia, il Picatrix fu in seguito definito dal grande filosofo arabo Ibin Kaldum “il trattato di magia più completo e meglio realizzato che si conosca”.
La ricerca delle origini del Picatrix non risulta particolarmente agevole, anche se ormai si è giunti sulla questione a conclusioni largamente condivise dagli studiosi. Siamo quindi per fortuna lontani dall’auspicio di J. Wood Brown, che nel 1897 si augurava che il trattato non venisse tradotto in lingua moderna. Il Picatrix non solo è stato tradotto e divulgato, ma è diventato nel corso del tempo un caposaldo per chi volesse accostarsi allo studio della magia araba e alla sua diffusione nel mondo occidentale, fino al Rinascimento.
Per quanto riguarda la struttura formale dell’opera, essa si presenta indubbiamente come un trattato, una esposizione ordinata di una teoria e di un complesso di teorie, in una articolazione per libri e capitoli. I libri disegnano la cornice generale di un dato argomento e i capitoli, come membra interne, ne attuano lo svolgimento. I Libri, nella loro stessa titolazione, contengono e prefigurano l’argomentazione che dovrà essere, provata, testimoniata, discussa nei capitoli. Abbiamo quindi davanti una struttura per cosi dire a scatole cinesi, poiché ogni capitolo rimpicciolisce e rende più visibile, come per l’effetto di una lente focalizzante, l’argomento generale.