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La Cina in cui visse Lu Hsun era agitata ininterrottamente da fremiti rivoluzionari. Negli anni che l'autore trascorse a Nanchino, ed in quelli passati in Giappone, nuove forze intellettuali si andavano manifestando ed organizzando. Lu Hsun aveva compreso assai presto che il compito di un intellettuale moderno non poteva essere se non quello di lottare per la libertà e la democrazia del suo paese. La rivoluzione del 1911 parve coronare i sogni suoi e dei suoi amici; ma quando fu chiaro che l'abbattimento della dinastia Manciu non aveva sostanzialmente risolto i problemi più urgenti della società cinese, Lu Hsun attraversò un periodo di grave crisi spirituale: crisi che appare palesemente in alcuni suoi racconti, nei quali si descrivono appunto certi tipi di intellettuali delusi e frustrati.
Anche il suo racconto più bello, La vera storia di Ah Q, tratteggiando la figura di un vagabondo in un villaggio cinese, vuol mettere in luce alcuni fondamentali difetti nazionali: il servilismo, l'autoinganno, l'abitudine a nascondere a se stessi il fallimento e la sconfitta, mascherandoli dietro un'ipocrita «vittoria morale». Erano i difetti diffusi in mezzo al popolo cinese da una classe dirigente servile, corrotta e velleitaria, abituata all'accettazione passiva del dominio straniero e sempre pronta a sfogare la propria inettitudine sulle spalle degli umili. Erano difetti che, in larga misura, aveva contribuito ad accentuare la vecchia cultura cinese, retriva e filistea, quella cultura contro la quale così brillantemente combatte Lu Hsun nel primo capitolo del racconto. Che Lu Hsun avesse colto nel segno è dimostrato dalla prontezza con cui la nozione dell'Ahquismo si diffuse in Cina.