Vicolo del Mortaio, pubblicato nel 1947, è la descrizione, lievemente ironica e distaccata, della vita quotidiana che si svolge in un vicolo del Cairo, durante la seconda guerra mondiale. Mahfuz, ispirandosi al classico realismo di costume dell'Ottocento (si può pensare, per esempio, a Dickens ... ), ma prestando anche attenzione alle tecniche e alle movenze proprie del romanzo novecentesco, ci offre il vivido ritratto di un'umanità dolente, spesso molto misera: lo sfruttatore di mendicanti che procura mutilazioni definitive dietro compenso e si aggira di notte per i cimiteri in cerca di protesi d'oro; la sensale di matrimoni a caccia di un buon marito per una matura cliente; lo Shaykh Darwish, che attribuisce alla lingua inglese, memorizzata in un cumulo slegato di vocaboli, lo stesso valore mistico che vede naturalmente incarnato nei versetti del Corano; il proprietario del caffè, esacerbato da un'inclinazione omosessuale e dall'assuefazione alla droga; ma soprattutto, il giovane barbiere che vuole santificare il suo amore per il Vicolo attraverso quello per una ragazza, Hamida; e poi Hamida stessa, nella cui volontà di fuga dalle bassure del suo quartiere natio è adombrata la ribellione radicale, l'impronta di un eterno e universale "esser-giovani", in opposizione a ogni forma di immobilità.
Mahfuz rappresenta tutto ciò con semplicità e insieme con esotica raffinatezza, dosando i dialoghi e i momenti di riflessione in modo da lasciare sempre un varco tra un episodio e l'altro. In ultimo, è la vita, nella sua nudità essenziale e drammatica, a imporsi a tutti come una sorta di riequilibratore, di deus ex machina. E la consapevolezza di essa che emerge nelle pagine conclusive di questo intensissimo romanzo, sembra portare il contrassegno di una strana evanescenza. Vi si potrebbe scorgere un monito di tollerante e pacato cinismo, un messaggio lanciatoci in forma indiretta e con fare un po' sommesso: quasi soprappensiero ...